Mancanza d'acqua, anziana di 92 anni costretta a lasciar casa
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mi permetto di scrivervi
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Focus amministrative 2024
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“Non sono andato nel Vietnam perché credo che ognuno abbia il diritto di vivere tranquillo nella propria casa. Non vedo perché uno solo di noi neri americani che sono privi della loro terra avrebbero dovuto andare a combattere contro chi stava tentando di difendere la propria terra”. Così parlò Muhammad Alì. La leggenda del pugilato ci ha lasciato il tre Giugno scorso. Aveva 74 anni. Era malato di Parkinson. Troppo facile, e forse non del tutto veritiero, sostenere che il combattimento più importante è stato perso da Alì. Perché Alì questa battaglia l’ha vinta, anche solo per il coraggio e la dignità avuti nel mostrarsi malato, ammantato della sua fragilità, così come lo fece della sua forza. Non fu solo un pugile. E’ sicuramente riduttivo parlarne in questi termini.
E’ una definizione che gli va troppo stretta. Fu un uomo capace di sostenere e difendere le sue idee di libertà e giustizia, di lottare contro i pregiudizi di un’America conservatrice e profondamente irritata di avere come campione del mondo dei pesi massimi chi si rifiutò di “onorare” la patria nella tragica follia del Vietnam. “Non ho niente contro i vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”. L’America ha potuto consolarsi con il mito creato ad arte dall’industria cinematografica di Rocky Balboa, decisamente più osservante e rivestito di patriottismo e sogno americano. Alì fu nominato il più grande sportivo del secolo scorso. Ha vinto l’oro olimpico ai giochi di Roma nel 1960, ha detenuto il titolo mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978. Fu indirizzato alla boxe da un poliziotto che lo incontrò quando, dodicenne, inveiva contro chi aveva rubato la sua bicicletta, promettendo allo sconosciuto una “bella strapazzata”. Il poliziotto gli consigliò di imparare prima a boxare e lo portò alla palestra della Columbia, dove mise da subito in luce il suo talento. Nel 1964 conquistò il titolo. Il giorno dopo la conquista del titolo si convertì alla fede islamica. Diventando per tutti e per sempre Alì, non più Cassius Clay. La sua carriera fu interrotta quando si rifiutò di combatter in Vietnam. Le sue idee gli costarono il ritiro della licenza da parte delle commissioni atletiche pugilistiche statunitensi. Lapidarie le sue battute a riguardo: “Ali, sai dov’è il Vietnam?” “Sì, in tv”. Su 61 incontri disputati vanta un record di 56 vittorie, 37 delle quali per KO, ha perso per KO una volta sola. E’ stato un grande campione. Apprezzato anche da chi, come me, non segue e non ama la “nobile arte”, perché è stato un combattente dentro e fuori dal ring: sempre.
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