Navanteri
Proprio alla vigilia dei festeggiamenti del centocinquantesimo anniversario dell’Unità, il Risorgimento italiano è sotto processo.
Negli ultimi anni, l’epopea ottocentesca che ha dato origine al nostro Paese è finita sul banco degli imputati, accusata come la responsabile di gran parte dei mali e dei vizi nazionali.
In libreria trionfano pamphlet che eccitano il vittimismo di questa o quell'altra fazione.

In opposizione all'invettiva nordista contro il Mezzogiorno, va di moda il rivendicazionismo meridionale che si schiera sotto le bandiere dei nostalgici di “re Franceschiello”.
Fin qui tutto sommato niente di scandaloso, considerato che la critica al Risorgimento ha una lunga tradizione.
Essa ha avuto inizio, da subito, contestualmente alla proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, da parte delle forze democratiche che si erano battute per un altro esito, diverso ed in contrapposizione da quello rappresentato dalla monarchia sabauda. Da allora in poi, comunque, quella critica ha occupato un posto centrale nel discorso e dibattito pubblico del Paese.
E' significativo il fatto che tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento, dal socialismo al fascismo, dal cattolicesimo politico, all’azionismo, fino al comunismo gramsciano, si sono basate proprio su una visione a dir poco polemica, problematica, articolata e complessa del processo di unificazione italiana.
Gli importanti contributi critici di Oriani, Gobetti, Omodeo, Gramsci ovvero dei grandi meridionalisti come Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato e Nitti, hanno offerto un'interpretazione storica contrastante con l'epica risorgimentale di Casa Savoia.
Pur tuttavia, la critica storiografica al Risorgimento italiano, sebbene abbia in molte occasioni assunto toni duri e spesso aspri, non ha mai superato un limite ovvero non ha mai oltrepassato una linea di demarcazione. In altre parole, essa si è sempre ben guardata dal divenire una critica all’unità ed al suo valore in sé ed in quanto tale.
Il dibattito storico-scientifico non ha mai ceduto alla tentazione di mettere in discussione il carattere positivo dell’esistenza dello Stato nazionale.
Mentre l'attuale dibattito storiografico, non solo, dipinge un quadro “alterato” di quel periodo storico, deformandone i protagonisti e distorcendo i fatti reali di quella vicenda, ma mina le fondamenta stesse di quel processo unitario e di liberazione, tanto auspicato ed atteso. (Machiavelli, Alfieri, Manzoni ecc.)
Oggi, purtroppo, si sta consumando una rottura decisiva e pericolosa. Va costituendosi, difatti, negli ultimi anni, un vero e proprio fronte antirisorgimentale ed insieme antiunitario che prende le mosse dal “leghismo nordista”; dal “tradizionalismo neoborbonico e paleomarxista”, e dal “cattolicesimo guelfo- temporalista” (Ernesto Galli della Loggia).
E' proprio questo il punto!!
E' in atto, per ragioni politico-economiche, un'operazione di delegittimazione strumentale del Risorgimento, finalizzata a colpire a morte lo stato unitario italiano.
Alla base di queste “interpretazioni alternative ” non sussiste, assolutamente, alcuna novità storica, ma, soltanto, un disegno politico ostile ed interessato, teso a “picconare” l'identità nazionale.
Difatti, viene offerta una ricostruzione del tutto approssimativa e parziale, basata su luoghi comuni, pettegolezzi, modelli interpretativi discutibili e su un complottismo maniacale (che vede massoni e misteri dappertutto).
Da qui discende un' interpretazione, priva di una logica sistemica senza prospettiva reale.
L’Unità d’Italia viene così spudoratamente semplificata e manipolata tanto che il suo racconto sembra un mix tra i romanzi di Dan Braun, le inchieste sulla P2, mani pulite ed il gossip dei salotti di Vespa.
Tutto ciò e inaccettabile!!!
Come ogni esperienza umana, anche, il Risorgimento ha avuto le sue ombre, ma non v’è dubbio che esse non possono certo offuscare il grandissimo valore storico- politico-economico- sociale e culturale dell'unificazione nazionale.
Da mera espressione geografica “l'Italia” è divenuta una nazione moderna, un soggetto, libero, indipendente, protagonista della comunità internazionale.
E' un fatto inoppugnabile che la “Bella addormentata” di cui il risorgimento ha interrotto il sonno, in tempi brevi, è divenuta una delle più ricche e potenti nazioni del mondo occidentale.
Orbene, sebbene la ricerca storica ha il dovere di continuare ad indagare ed approfondire aspetti ancora controversi del processo di liberazione nazionale, giammai deve soffermarsi su valutazioni pseudo-politiche del tipo “Chi ha guadagnato e chi ha perso con l'unità”, perché sono ad esse inconferenti.
L'interpretazione storica deve rimanere ancorata rigorosamente al metodo ovvero a quelle tecniche e quelle linee guida con le quali gli storici usano scientificamente le fonti primarie, respingendo, con fermezza, operazioni culturali non funzionali ad essa.
Entrando nel merito delle questioni mi preme replicare, in particolare, quanto segue.
In primo luogo, la tesi della neo-storiografia ignora, completamente, il quadro generale europeo e mondiale del XIX secolo, nell’ambito del quale il processo unitario nazionale dovette per forza di cosa muoversi e dal quale era inevitabilmente condizionato.
E poi contrariamente a quanto sostenuto dai neo-borbonici, nessun depauperamento del Sud si è verificato dopo l’Unità.
Tale convinzione deve considerarsi un’autentica fesseria!!!
La storiografia ha dimostrato in maniera incontrovertibile che nel 1860, il divario economico tra Nord e Sud era già fortissimo sotto tutti i punti di vista: dall’estensione delle strade all’alfabetizzazione, dallo sviluppo dei commerci a quello dell’agricoltura.
Ed invero, la sempre evocata e sbandierata ferrovia Napoli-Portici, invece che simbolo della modernità borbonica, non era altro di fatto che espressione della mala gestio dei regnanti napoletani. Essa rappresentava il “giocattolo del re” mentre, invece, la “Torino-Genova” o le ferrovie costruite dagli austriaci in Lombardia avevano una funzione di volano concreto di sviluppo economico di quelle terre. Portici, all'epoca era un sobborgo di Napoli, dove non c’era niente se non qualche villa…
I sette chilometri di binari esprimono la reale ratio delle scelte "economiche" dei Borboni, determinate, giammai, da una progettualità o da un piano di sviluppo coerente e razionale, bensì dalle scelte di un sovrano “ignorante e capriccioso”.
In tutto il Regno delle Due Sicilie non c’era una strada degna di questo nome: a dirlo non sono le descrizioni fatte dai prefetti sabaudi, ma quelle degli alti funzionari dell’amministrazione borbonica negli anni Quaranta-Cinquanta.
D’altra parte, è un fatto storicamente accertato che le sorti del Regno borbonico erano affidate ad una classe “dirigente” corrotta e traditrice.
La fragilità e la capitolazione del regno delle due Sicilie non è certo ascrivibile alle simpatie inglesi verso le gesta garibaldine.
Tutto ciò è dimostrato dalla repentina decomposizione del Regno, dopo lo sbarco dei Mille a Marsala. Non è una corbelleria dei Savoia l’odio nutrito per la dominazione borbonica da parte dei siciliani, che parteciparono, con migliaia di caduti, alla liberazione dell’isola, appoggiando in armi la spedizione garibaldina.
A ciò deve aggiungersi che è certamente vero che le casse del regno borbonico fossero piene, ma a scapito delle esigenze del popolo.
Storici meridionalisti seri ed affidabili hanno da tempo rimarcato che “le condizioni di vita miserrime della maggior parte dei sudditi borbonici, l’analfabetizzazione imperante e ben al di sopra della media europea d’allora (basti pensare, ad esempio, che numerosi consiglieri comunali della provincia di Napoli firmavano i verbali di consiglio aiutandosi con una stampiglia di legno)” (AAvv).
E' senz'altro credibile che “I Borbone persero il Regno per necessità storica: Francesco I e Ferdinando II cercarono, con una perseveranza maniacale, di chiudere le genti del Sud in una specie di bolla gigantesca che li isolasse da un mondo che cambiava senza sosta. Accadde così che piccoli gruppi di eccellenza, ingegneri, architetti, medici, raggiungessero posizioni d’avanguardia: ma l’analfabetismo di massa toccava percentuali altissime, e il programma delle scuole pubbliche di primo grado era roba da ridere. Nell’ultima battaglia, sul Volturno, i soldati napoletani si coprirono di gloria, ma pochi di essi sapevano leggere e scrivere; tutti i sodati piemontesi, invece, leggevano e scrivevano con una certa facilità. Questo dato sarebbe sufficiente, da solo, a spiegare il crollo del Regno” (Prof. Cimmino Università di Napoli).
E' un falso storico ritenere l'esistenza della Padania.
Come, altrettanto non corrispondente al vero l'intenzione dei Piemontesi di costruire uno sistema istituzionale accentratore sin dall'inizio, considerato che Cavour e Minghetti avevano preparato un progetto di stato fortemente decentrato, successivamente abbandonato solo per circostanze contingenti.
Grazie al risorgimento il popolo italiano è salito sul treno del progresso, liberandosi da quella atavica subalternità.
La formazione dello stato unitario è stato, senza dubbio, l'unico aggancio e/ o collegamento della penisola italica con il mondo moderno.
Infatti,è di tutta evidenza che il processo unitario in un certo qual modo è in continuità con tutto quello che è seguito alla Rivoluzione Francese, alla Rivoluzione napoletana del 99, ai Moti Carbonari, alle Guerre di Indipendenza, per come è dimostrato dagli stessi intellettuali che si spesero e sostennero queste tappe rivoluzionarie importanti, pagando alcuni di essi anche con la vita.
Nessuno ha mai negato di ritenere che si sia trattato di una rivoluzione borghese, dove il popolo è stato del tutto assente, ma nello stesso tempo il risorgimento italiano ha reciso, definitivamente, alla radice ogni legame con la monarchia assoluta, dirigendosi verso monarchie costituzionali ed avviando l’instaurazione di profondi processi di trasformazione.
L'impostazione politico- istituzionale, dunque, muta radicalmente: dall’impianto del sistema giudiziario all’allargamento progressivo nel periodo post-unitario, del diritto di voto.
Ed ancora: superficiale e senza costrutto rimane la questione del brigantaggio, che i neo-borbonici riconducono come reazione alla “conquista piemontese”, ma che al contrario esso era in realtà ben radicato nel Sud già due secoli prima.
Tanto è vero tale circostanza che “i primi a mettere in pratica la repressione armata contro brigantaggio furono gli stessi Borbone, che sotto Ferdinando I arrivarono persino ad affidarsi ad uno straniero: il Generale Richard Church. Anche durante il regno di Gioacchino Murat, diversi decenni prima della spedizione dei Mille, il brigantaggio fu aspramente combattuto. Il Colonnello francese Charles Antoine Manhés è ricordato per i suoi metodi violenti e crudeli. I francesi stigmatizzarono in particolare l’utilizzo delle bande da parte dei nobili latifondisti locali, che se ne servivano per tenere i loro contadini in una situazione di sottomissione del tutto simile alla schiavitù” (AAVV).
Altro che patrioti!!!
Le ragione e le cause scatenanti il Brigantaggio devono ricercarsi altrove, mentre cosa diversa è la responsabilità delle classi dirigenti borghesi post-unitarie sul dramma sociale del “brigantaggio”, di cui non seppero comprendere le vere cause e che, perciò, repressero nel sangue con l’invio dell’esercito.
Per tali Politiche sbagliate delle classi dirigenti post-unitarie, in epoca fascista e dopo la costituzione repubblicana, che hanno portato ad un allargamento crescente della forbice nord-sud non è giusto e corretto “accusare” gli eroi risorgimentali.
Orbene, le contestazioni, “seppur legittime” non possono certo ridimensionare, come ha sostenuto Benedetto Croce “uno dei momenti più alti della Storia Nazionale”. Opinione da condividere, al di là delle posizioni.
Di fatti, ritengo che “ la storia dell'Italia Unitaria può essere raccontata secondo due prospettive contraddittorie. Come storia d'un grande fiume sotterraneo che emerge alla superficie dopo aver attraversato, nascosto ed intatto, mille anni di storia europea. E come storia di coincidenze, avvenimenti casuali, calcoli sbagliati, errori generosi” (Sergio Romano).
Ma comunque sia andata giusta è la frase: “liberi non saremo se non siamo Uni” (Alessandro Manzoni).

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