Una politica di rigore dei conti pubblici, unita ad un concreto inasprimento del contrasto all'evasione fiscale, non sembra sufficiente, senza un incremento considerevole della produttività, a fronteggiare l'attuale congiuntura del Paese.
La condizione essenziale per uscire dall'attuale crisi economica-finanziaria consiste nella crescita. Alternative ad essa, realistiche ed efficaci non esistono ovvero non sono praticabili.
Dunque, “la parola d'ordine” per l'Italia, in questo momento, è quella di crescere, crescere, crescere!!!
Ma un decreto-legge del governo (di qualunque colore politico faccia parte) non tramuterà, certamente, la gravissima situazione, in mancanza, delle riforme economiche ed istituzionali necessarie per rimettere in moto il sistema produttivo italiano come in più occasioni rimarcato su queste colonne.
Ebbene, assodato il doveroso completamento del processo di modernizzazione del Paese, resta da riflettere sui settori strategici cui puntare per crescere, tenendo in considerazione il cambiamento politico-economico del quadro generale mondiale, l'aumento turbinoso della competitività dei mercati internazionali, con l'ingresso aggressivo dei Paesi emergenti (Bric), nonché l'evidente saturazione dei mercati stessi.
Non v'è dubbio, da un lato, che occorre rafforzare i settori tradizionali, trainanti da sempre l'economia italiana (come il manifatturiero, il tecnologico, l'automobilistico, il turistico ecc.. ecc.), mentre dall'altra parte sfruttare a pieno le risorse peculiari, caratteristiche ed esclusive del Bel Paese, attraverso la valorizzazione, la salvaguardia e promozione del nostro patrimonio culturale storico-artistico. Tutto ciò, comunque, non è semplice!!!
L'anzidetta idea presuppone una “rivoluzione copernicana” dell'intero sistema-Italia che rompa con i modelli classici precostituiti ed avvii una stagione di riforme, di trasformazioni, tese a porre la cultura al centro del sistema produttivo e che la medesima (cultura) rappresenti la piattaforma concreta per uno sviluppo economico sostenibile. E' comprensibile che tale visione desti delle riserve, atteso il tradizionale preconcetto che la “Cultura” e “l'Economia” siano considerati due mondi distinti e lontani. Tuttavia, negli ultimi anni appaiono sempre più chiari e netti i nessi stretti (innovazione tecnologica, innalzamento livello d'istruzione, crescita reddito, globalizzazione) che legano la cultura e l'economia nelle società industriali avanzate.
La cultura, intesa come complesso articolato di beni materiali e immateriali deve considerarsi, ormai, un’industria che sta assumendo un peso crescente nelle economie contemporanee.
Ultimamente, uno studio, svolto da KEA, European Affairs per la Commissione Europea (2006) e noto anche come “Rapporto Jàn Figel”, dal nome del Commissario UE, ha calcolato che nel 2003 il settore culturale, insieme a quello creativo, ha generato un giro d’affari, nell’insieme dell’UE 25, di ben 636 miliardi di euro, con un contributo al Pil europeo pari al 6,4%, un dato superiore al giro d’affari generato dall’industria ICT e più che doppio rispetto all’industria meccanica e dell’automobile europea.
In termini di valore aggiunto rispetto al Pil europeo, la rilevanza del settore culturale e creativo emerge ancora di più: se il valore aggiunto del settore delle costruzioni rappresenta il 2,1% del Pil, quello del comparto alimentare l’1,9%, la chimica e la plastica insieme il 2,3%, il tessile appena lo 0,5%, il valore aggiunto della cultura nel 2003 ha sfiorato i 260 miliardi di euro, vale a dire il 2,6% del Pil europeo (dati Kea).
Per queste ragioni la nostra penisola, che è certamente povera di giacimenti petroliferi, risorse energetiche o minerarie, ma, straordinariamente ricca di “spirito”, ovvero di “cultura”, deve cogliere tale opportunità, avendo il più grande patrimonio culturale del mondo, composto da 52 mila beni immobili vincolati, fra architettonici ed archeologici, 4800 fra musei, aree archeologiche e complessi monumentali, 17 mila biblioteche e 5.600 archivi.
Perciò, è indispensabile avviare una seria politica economica, indirizzando ogni sforzo ed energia verso la costruzione di una “industria integrata della cultura”, composta non solo dai “beni culturali tradizionali” come biblioteche, archivi, musei, mostre, teatri, danza, circo, scultura, pittura e fotografia, ma, per di più, dalle “cultural industries” fra cui sono rientranti le produzioni cinematografiche, video e musicali, le produzioni radio-televisive e dello spettacolo, le agenzie di stampa, l’editoria e la produzione di video-giochi.
Tale neo-sistema produttivo rimane insufficiente se non viene ad interagire ed ad integrarsi in un “unicum” con il “settore creativo” che, invece, comprende un insieme di funzioni collegate in forme più o meno dirette alla produzione, come il design, l’architettura, la pubblicità, oltre ad un composito insieme di attività connesse con l’industria dell’informazione e della comunicazione.
Tutta l'industria culturale italiana nel suo insieme, rinnovata e coordinata nei termini sopra delineati, rappresenterebbe un volano di sviluppo innovatorio per l’economia del Paese e, giammai, un ostacolo per il profitto, se si considera, soltanto, che lo Stato destina poco più dello 0,20% del suo bilancio a fronte di un'industria culturale che rappresenta il 2,3% del Pil, posizionando il nostro paese a metà circa della graduatoria europea con un apporto inferiore a Francia, Spagna e Germania. Epperò, nonostante le modeste performances il valore aggiunto del settore culturale nell'ultimo decennio resta in costante crescita, senza calcolare la possibilità di rendere più efficiente ed ottimizzare la straordinaria dotazione patrimoniale.
Tutto ciò deve far riflettere sulle potenzialità economiche e sulle ricadute positive in termini occupazionali, che accompagnate ad una nuova politica ed un nuovo ruolo della scuola, dell'università e della ricerca aprirebbe ampi spazi e nuovi e impensati scenari.
Pertanto, attualmente, bisogna considerare concretamente la cultura come un vero e proprio business ove vengano valorizzate le sinergie e le collaborazioni tra pubblico e privato, attraverso misure di fiscalità di vantaggio tali da incentivare gli imprenditori a spendere denaro per la cultura.
Ma v'è di più.
Una società basata sulla cultura non determinerà, soltanto, un contributo quantitativo al benessere sociale, ma, anche, dovrà di conseguenza orientare la società verso nuovi modelli organizzativi e modi di fruizione delle risorse. Per tali ragioni, per un’economia sempre più basata sulla conoscenza, la cultura costituisce una risorsa collettiva che contribuisce ad alimentare la creatività, a stimolare l’innovazione e ad accrescere la qualità del capitale umano.
Di queste fondamentali esternalità avranno beneficio molti settori dell’economia, in particolare quelli a più elevata intensità conoscitiva sui quali sempre più si basa la competitività delle economie moderne.
Questo è il punto nodale!!!
Attraverso il processo riformatore sopra descritto, il sistema produttivo italiano si attrezzerà alle sfide del futuro, trovando le principali potenzialità nelle proprie radici, nelle tradizioni autoctone, ove la cultura è in grado di mobilitare risorse e competenze presenti nel territorio, rafforzando la creatività e le capacità di innovazione della popolazione e favorendo così l’evoluzione dei sistemi economici locali verso un posizionamento competitivo sostenibile in un’economia aperta.
La cultura resta per l'Italia l'unica arma (pacifica) per proiettarsi verso il futuro.