La vicenda dei prodotti da banco alimentare rinvenuti nei giorni scorsi nelle campagne del nostro comune nei pressi di una sorgente di acqua potabile, oltre ai risvolti di carattere giuridico, riveste aspetti prettamente umanitari fortemente connessi col tipo di società cosiddetta “civile, evoluta e altamente tecnologica” come la nostra, che allegramente e inconsciamente spreca le risorse del pianeta fino al punto di non ritorno che causerà la sparizione di ogni forma di vita, almeno nella forma oggi conosciuta.
Una autodistruzione annunciata, questa, che non fa molta paura semplicemente perché non sono noti i tempi, certamente lunghi, del suo compiersi.
Gli sprechi che quotidianamente avvengono in tutta la società occidentale che naviga nel più cieco benessere non conoscono, infatti, limiti. Ogni giorno nella sola città di Roma vengono buttati in discarica ben duecento quintali di pane. Fare un calcolo dei generi alimentari che quotidianamente vengono distrutti nella parte opulenta del pianeta, sebbene fortemente minoritaria per estensione geografica e numero di abitanti, è assolutamente impossibile. Una autentica vergogna resa possibile da leggi assurde e comportamenti dei consumatori condizionati da una becera propaganda che pretende a parità di prezzo il prodotto migliore, cioè il più bello, il meglio confezionato, il più fresco (nel caso di specie il più caldo in quanto appena sfornato), et cetera.
Sono questi comportamenti tipici di una società che ha ormai da tempo puntato sul raggiungimento di sempre più elevati livelli di benessere esclusivamente materiale e che per questo ha perso il senso della misura nella scala di valori che ci contraddistinguono.
Una società che nell’epoca della comunicazione per eccellenza, comunica sempre meno coi propri simili coi quali evita di relazionarsi al di fuori delle occasioni estemporanee rappresentate dalle manifestazioni di massa in luoghi di divertimento, o dei rapporti professionali dei luoghi di lavoro, in cui i rapporti si interrompono appena varcata la soglia dell’ufficio. Per contro si privilegia la “compagnia” di un animale, quasi sempre un cane o un gatto (a volte anche più di un esemplare), per il quale si hanno attenzioni pressoché morbose. Animali che entrano a tutti gli effetti a far parte integrante di una famiglia sempre più mono nucleare, che spende fior di quattrini in cibi, assistenza sanitaria e quant’altro. Spese peraltro riconosciute dallo Stato che prevede la loro deduzione in sede di dichiarazione dei redditi.
Mentre gli umani diventano sempre più monadi chiuse in se stesse capaci anche di disinteressarsi dal prestare aiuto ad un consimile sconosciuto che può trovarsi in stato di necessità, con ammirevole slancio non esitano a prendere le difese di un povero animale maltrattato. La cronaca è piena di eventi che testimoniano il più completo disinteresse nei confronti di umani che restano vittime di ogni tipo di violenza nel disinteresse più aberrante di chi, trovandosi ad assistere, volge lo sguardo da tutt’altra parte facendo finta di non aver visto, forse temendo le lungaggini burocratiche e giudiziarie. L’aberrazione del comportamento consiste solo nel capovolgimento della scala dei valori: Non si può correre in difesa del cane e scappare di fronte alla vecchietta che stramazza sull’asfalto per difendere la sua misera pensione.
Ma le percentuali di single che “convivono” con un animale da compagnia aumentano vertiginosamente e molti sono disposti a “piegarsi” alle necessità fisiologiche di un animale che in tal senso è paragonabile ad un bambino. E per il suo bene viene ad esso dedicato tempo libero, denaro e attenzioni che esso ricambia con “affetto” anche se pare più una sottomissione ad un riconosciuto capo branco. Il cane, dal più piccolo chihuahua all’imponente alano rispetta i ruoli senza fiatare e il suo affetto lo dimostra scodinzolando alla vista del piatto contenente cibi accuratamente predisposti e dosati che, fatte le debite differenziazioni, potrebbero portare altrettanta, se non maggiore felicità ad un disperato bambino del terzo mondo che sopravvive magari rovistando in una discarica alla ricerca di qualcosa che possa dagli la forza di veder sorgere il sole per un altro giorno ancora.
Ma nella società del benessere, ferreamente legata al concetto di profitto, a fine giornata si distrugge ciò che rimane invenduto, sebbene ancora perfettamente commestibile. Non è permesso sfamare i propri simili, nemmeno con quella parte di prodotto che ancora fa bella mostra esposto ad arte, con cura tale da accattivare i palati più esigenti. Ormai, a saracinesche abbassate, il povero addetto alla rimozione del cibo rimasto invenduto, effettua quotidianamente il macabro rito della distruzione del pane. Lo fa in fretta, magari forse perché deve correre nella prospiciente parrocchia per ascoltare la parola del suo Dio che gli intima di dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi e quant’altro.
Ma egli sa di non avere alcuna colpa e, religiosamente, assume il cibo dell’anima che gli apre le porte del Paradiso.
Gli sprechi che quotidianamente avvengono in tutta la società occidentale che naviga nel più cieco benessere non conoscono, infatti, limiti. Ogni giorno nella sola città di Roma vengono buttati in discarica ben duecento quintali di pane. Fare un calcolo dei generi alimentari che quotidianamente vengono distrutti nella parte opulenta del pianeta, sebbene fortemente minoritaria per estensione geografica e numero di abitanti, è assolutamente impossibile. Una autentica vergogna resa possibile da leggi assurde e comportamenti dei consumatori condizionati da una becera propaganda che pretende a parità di prezzo il prodotto migliore, cioè il più bello, il meglio confezionato, il più fresco (nel caso di specie il più caldo in quanto appena sfornato), et cetera.
Sono questi comportamenti tipici di una società che ha ormai da tempo puntato sul raggiungimento di sempre più elevati livelli di benessere esclusivamente materiale e che per questo ha perso il senso della misura nella scala di valori che ci contraddistinguono.
Una società che nell’epoca della comunicazione per eccellenza, comunica sempre meno coi propri simili coi quali evita di relazionarsi al di fuori delle occasioni estemporanee rappresentate dalle manifestazioni di massa in luoghi di divertimento, o dei rapporti professionali dei luoghi di lavoro, in cui i rapporti si interrompono appena varcata la soglia dell’ufficio. Per contro si privilegia la “compagnia” di un animale, quasi sempre un cane o un gatto (a volte anche più di un esemplare), per il quale si hanno attenzioni pressoché morbose. Animali che entrano a tutti gli effetti a far parte integrante di una famiglia sempre più mono nucleare, che spende fior di quattrini in cibi, assistenza sanitaria e quant’altro. Spese peraltro riconosciute dallo Stato che prevede la loro deduzione in sede di dichiarazione dei redditi.
Mentre gli umani diventano sempre più monadi chiuse in se stesse capaci anche di disinteressarsi dal prestare aiuto ad un consimile sconosciuto che può trovarsi in stato di necessità, con ammirevole slancio non esitano a prendere le difese di un povero animale maltrattato. La cronaca è piena di eventi che testimoniano il più completo disinteresse nei confronti di umani che restano vittime di ogni tipo di violenza nel disinteresse più aberrante di chi, trovandosi ad assistere, volge lo sguardo da tutt’altra parte facendo finta di non aver visto, forse temendo le lungaggini burocratiche e giudiziarie. L’aberrazione del comportamento consiste solo nel capovolgimento della scala dei valori: Non si può correre in difesa del cane e scappare di fronte alla vecchietta che stramazza sull’asfalto per difendere la sua misera pensione.
Ma le percentuali di single che “convivono” con un animale da compagnia aumentano vertiginosamente e molti sono disposti a “piegarsi” alle necessità fisiologiche di un animale che in tal senso è paragonabile ad un bambino. E per il suo bene viene ad esso dedicato tempo libero, denaro e attenzioni che esso ricambia con “affetto” anche se pare più una sottomissione ad un riconosciuto capo branco. Il cane, dal più piccolo chihuahua all’imponente alano rispetta i ruoli senza fiatare e il suo affetto lo dimostra scodinzolando alla vista del piatto contenente cibi accuratamente predisposti e dosati che, fatte le debite differenziazioni, potrebbero portare altrettanta, se non maggiore felicità ad un disperato bambino del terzo mondo che sopravvive magari rovistando in una discarica alla ricerca di qualcosa che possa dagli la forza di veder sorgere il sole per un altro giorno ancora.
Ma nella società del benessere, ferreamente legata al concetto di profitto, a fine giornata si distrugge ciò che rimane invenduto, sebbene ancora perfettamente commestibile. Non è permesso sfamare i propri simili, nemmeno con quella parte di prodotto che ancora fa bella mostra esposto ad arte, con cura tale da accattivare i palati più esigenti. Ormai, a saracinesche abbassate, il povero addetto alla rimozione del cibo rimasto invenduto, effettua quotidianamente il macabro rito della distruzione del pane. Lo fa in fretta, magari forse perché deve correre nella prospiciente parrocchia per ascoltare la parola del suo Dio che gli intima di dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi e quant’altro.
Ma egli sa di non avere alcuna colpa e, religiosamente, assume il cibo dell’anima che gli apre le porte del Paradiso.