Navanteri
La poltrona posta al di la di una scrivania, è sempre stata un simbolo di potere. Un potere esercitato, specialmente nei tempi passati, per lo più ciecamente al solo scopo di creare sottomissione e alimentare il proprio delirio di onnipotenza, ma con scarso senso di responsabilità per le decisioni che si assumevano,  in quanto effetto di chiara incompetenza
Bnl
ammantata di una boria che si rivelava come tale solo quando la poltrona era sfuggita sotto i piedi trasformandosi come un giocattolo rotto nelle mani di un bambino capriccioso. 
Anche nei tempi odierni, in special modo nella nostra realtà meridionale, occupare una poltrona è, spesso, un mezzo per percepire un lauto stipendio e, perché no, per assicurare un avvenire di tutta comodità ai propri figli. Una poltrona è anche per pavoneggiasi, per sentirsi al centro dell’attenzione, per essere seguiti e accompagnati da un codazzo di questuantes che mentre chiedono favori e favoritismi, stramaledicono il pavone che implorano augurandogli nel segreto della propria mente la morte nella segreta quanto vana speranza di sostituirsi nella carica.
La poltrona, chi la possiede, la usa principalmente per poltrire. Più poltrisce e più è ammirato per la capacità di accontentare e rassicurare tutti con un gesto, una parola ad effetto che un solo destinatario può capire e decifrare; una strizzatina d’occhio che la massa non comprende ma alla quale, il vero destinatario risponde con un largo gesto allontanandosi subito dopo, suscitando rabbia frammista ad invidia in chi si è sentito trascurato.
Chi poltrisce sapendo di poltrire, sa di raccogliere gli anatemi degli invidiosi che vorrebbero prenderne il posto. E quando, ove mai dovesse malauguratamente succedere, la stella del poltrone volge improvvisamente al tramonto per una concomitanza di imponderabili fattori esterni negativi, nessuno più lo riconosce, nessuno lo saluta, ma tutti volgono il capo dall’altra parte per confidare all’amico quanto era carogna quel personaggio quando credeva in una sua sempiterna onnipotenza.
Il poltrone si guarda bene dal mettersi da parte alla scadenza del mandato. Fa carte false pur di essere riconfermato nella carica e alla pensione non ci pensa neppure minimamente. Lo status di pensionato lo umilierebbe, facendo scoprire la sua vera natura di uomo capace di esternare tutto il suo potere fintanto che un solido tavolo sepolto da un mare di carte inutili, lo separa dal suo interlocutore.
Ma prima o poi, per un motivo o per un altro il poltrone dovrà abbandonare la sua postazione di comando che egli amava far passare per un avamposto di trincea. Per un certo periodo di tempo sparirà dalla circolazione nel vano tentativo di assumere un comportamento ed una postura del tutto simile a quella che lo vedeva sempre impegnatissimo ad impartire ordini e contrordini. Quando poi alla fine riapparirà in pubblico, di ritorno dalla sua prima (e ultima) vacanza in una qualsiasi celebrata località turistica che includeva un breve excursus presso il vicino luogo di fede, il nostro personaggio, come risvegliandosi da un sogno, metterà il naso fuori dal suo portone di casa (fors’anche munito della sua ex straripante borsa di pelle con la scusa di consegnare alcune carte - inutili - rimaste ancora in suo possesso), tenterà, lui per prima, di salutare le persone che prima snobbava venendo ricambiato, nel migliore dei casi da una gelida indifferenza.
L’unico amico col quale può scambiare una parola resta quell’unico che non ha mai avuto bisogno dei suoi favori e che ora se lo vede girare intorno tutti i giorni, sempre più frustrato nel rivangare un passato, a suo dire glorioso, che non torna.
Dalle parti nostre (ma quali sono queste parti, con precisione non saprei dire) una poltrona, sembra strano ma può ancora succedere, la si può ereditare, ove trattasi di enti privati con funzioni di carattere pubblico, oppure, in campo politico, la si può mantenere con operazioni a tavolino effettuate sulla testa degli ignari elettori che credono di determinare col proprio voto le scelte che più stanno a cuore, magari sulla base di un programma elettorale ricco di obiettivi impossibili, salvo poi scaricare le proprie responsabilità sugli eventi imponderabili che hanno impedito la realizzazione delle grandi promesse.
A volte ci si ritrova ad occupare una poltrona “ope legis”. In questo caso si possono dormire sonni tranquilli. L’unico scoglio, insormontabile, è il raggiungimento dei requisiti per la pensione: Il massimo del servizio (40 anni) abbinato al massimo dell’età (65 anni).
Invano il nostro arzillo burocrate ostenta giovinezza e dinamismo. Invano è sempre presente dietro la sua scrivania dando ordini, (che nessuno capisce), proponendo nuove strategie di marketing (tutte obsolete), salvo poi sonnecchiare appena resta solo nella stanza che lo vide trionfare in mille occasioni.
Anche per lui si apre l’era del cambio di attività. Nulla di più naturale vederlo domani mattina – primo giorno di pensione – lasciarsi trascinare da un cagnetto che, come il padrone, ha urgenza di fare la pipì.
Chi non si prepara psicologicamente al cambio di vita e sogna fino all’ultimo la giovanile onnipotenza, rimuginando il passato, condurrà una triste vecchiaia che si concluderà comunque con un suono di campane che non potrà più ascoltare.
E’ quasi certo che al suo posto siede un sosia che avrà gli stessi comportamenti. E’ inutile sbraitare più di tanto. Il poltrone che poltrisce fa parte integrante di una cultura dura a morire che trova nel “quieta non movere” la più alta espressione di stabilità di una società cristallizzata che va avanti per forza d’inerzia.

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