La sera del 18 e quella del 19 marzo, in concomitanza con i festeggiamenti in onore di San Giuseppe, Spezzano Albanese riviveva un antico rituale di chiara matrice pagana, che con diverse varianti e simbologie si ritrova in molte altre culture. Si trattava dei falò, (fanonjet) che riprendevano un’antichissima usanza riconducibile ai riti propiziatori per il ritorno della primavera di epoca romana e medievale.
Le tante “gjitonie” (rioni) del paese, per due sere consecutive si illuminavano dei bagliori infuocati delle fascine che nei giorni e nelle settimane che precedevano la festività di San Giuseppe, in una sorta di inespressa quanto evidente competizione rionale, principalmente i ragazzi, ma anche gli adulti, facevano a gara nell’accumulare il maggior quantitativo possibile di fascine provenienti in massima parte dalla potatura degli ulivi e delle viti esistenti nel territorio comunale.
Nei pressi del cumulo di frasche ardenti che diventava sempre più alto e sempre più incandescente, un autentico fuoco propiziatorio, gli abitanti del quartiere gustavano le caratteristiche “vechiarele”, prodotto tipico della cucina arbëreshe che, accompagnate da vino casereccio a volontà e dall’offerta di un piatto di “tumac me qiqëra” (lagana con ceci), venivano distribuite ai presenti e ai visitatori provenienti dagli altri rioni del paese che in una specie di pellegrinaggio, facevano il giro dei falò per giudicare quale fosse il più grande, il più ospitale e il meglio organizzato. Su tutto poi dominava la musica; di rigore quella dell’organetto, sebbene sempre più spesso soppiantata da quella più assordante delle casse acustiche.
Il momento culminante di tutta la manifestazione si raggiungeva quando, aiutati dal buon vino e dal cibo che contribuiva ad esaltare gli animi, gli astanti si cimentavano in pseudo pericolosi salti del falò, le cui fiamme volgevano ormai al termine. Nell’immaginario del rituale che affondava le sue radici in epoche storiche lontanissime, assorbite e fatte proprie poi, dalla religione cristiana, tali salti avevano, seppure inconsciamente, il significato dell’uomo che sfida e domina le forze della natura, piegandola ai suoi voleri.
Ma anche i falò di San Giuseppe, espressione genuina di una cultura minoritaria sempre più asfissiata dall’imperante massificazione operata dalla cosiddetta “civiltà industriale”, è pressoché giunta al suo triste epilogo. Non c’è più tempo per raccogliere le frasche; i contadini le bruciano sul posto e i ragazzi sono terribilmente impegnati a giocare col computer, chiusi fra le quattro mura della loro stanzetta. L’accensione di fuochi rovina l’asfalto, squaglia i cavi dell’energia elettrica e delle linee telefoniche, crea problemi di viabilità e necessita di permessi e autorizzazioni sempre più difficili da ottenere. Le fritture improvvisate per strada non godono più il favore della gente ormai abituata ad altri standard igienici e ognuno si limita a guardare con un pizzico di curiosità una scena che gli ricorda l’infanzia, ma che non lo attrae più di tanto.
I pochi, pochissimi falò che anche quest’anno i più tradizionalisti cercheranno di far rivivere a Spezzano Albanese, non sono altro che una triste pantomima di una cultura e di una società che ha perso i suoi più reconditi valori. Non bastano gli incentivi di varia natura, per quanto meritevoli, delle varie amministrazioni comunali e non servono leggi speciali di tutela delle minoranze. La cultura non si impone per decreto. Se così fosse se ne potrebbe varare uno che riportasse in vita l’impero romano o qualsiasi altra civiltà del passato, o che fosse anche solamente capace di eternare lo status quò, ammesso e non concesso che tale status venisse considerato da tutti come la summa della civiltà e del progresso umano.
La società, in tutti i suoi aspetti, è in eterna evoluzione. I modelli culturali, sociali, economici, morali, etc. cambiano, lentamente e impercettibilmente, giorno dopo giorno. Anche le istituzioni più solide che fondano il loro dettato nella fede, di per se elemento inamovibile per antonomasia, col passare dei secoli, seppure in misura non eclatante, ma si modificano. E’ notorio, in questo senso, l’esempio della Chiesa Cattolica. Quella di oggi non è certo quella delle origini, non è quella delle crociate, non è quella della lotta delle investiture e nemmeno quella dell’Inquisizione, del potere temporale, et cetera.
Ciò non vuol dire che la tradizione su cui fondano le proprie radici interi popoli sia da buttare alle ortiche. Significa soltanto che non bisogna piangersi addosso quando si nota un cambiamento perché il cambiamento di oggi, prima di essere a sua volta soppiantato diverrà anch’esso tradizione da salvaguardare. Finché sarà possibile.