Quando si parla di scuola (e solo di scuola), dalla materna (oggi scuola dell’infanzia) alla scuola secondaria di secondo grado, ci si rende conto che accanto al corpo docente di ruolo (oggi definito “con incarico a tempo indeterminato”), vi è un esercito parallelo di docenti sempre pronti a rispondere al telefono per accettare una cosiddetta “supplenza breve”, in pratica una sostituzione del collega titolare che si è dovuto assentare dal “servizio di istituto” quasi sempre per motivi di salute, ma anche per motivi di studio, di famiglia o altro.

Questo docente “supplente” che ha tutti i requisiti culturali, pedagogici, didattici oltre che giuridici, avendo superato esami e concorsi specifici successivamente all’ottenimento del diploma che abilita all’insegnamento, (oggi laurea), lo diciamo per quei pochi che non lo sanno, è un “docente precario”, in quanto lavora per limitati periodi di tempo, venendo pagato, di conseguenza, per i soli giorni in cui ha prestato effettivo servizio.

Il docente precario, si trasformerà in docente di ruolo (con incarico a tempo indeterminato), non appena, in base alla graduatoria di cui fa parte, verrà chiamato a ricoprire in via definitiva, un posto resosi vacante per pensionamento o per ampliamento dell’organico in conseguenza dell’aumentato numero di alunni iscritti, o per altri motivi.
Da questa esemplificazione del problema, appare evidente come il precariato sia da sempre una specificità della sola scuola e non di altre amministrazioni, siano esse statali, pubbliche o private,    presentandosi quindi come una peculiarità assolutamente ineliminabile.
Questo semplicemente perché, quando un docente titolare è costretto ad assentarsi dal servizio, gli alunni della sua classe o delle sue classi, siano essi minorenni o maggiorenni (per i limitati casi nelle ultime classi la scuola secondaria di secondo grado), vanno presi in consegna da un sostituto che risulta poi responsabile dal punto di vista non solo didattico, ma anche giuridico, della sicurezza e di ogni altro aspetto già demandato al docente titolare. Questa necessità di sostituzione immediata non si ravvede nelle altre amministrazioni, nelle quali le mansioni affidate al personale temporaneamente assente, vengono espletate dagli altri colleghi o vengono semplicemente rimandate alla ripresa del servizio, trattandosi di pratiche di tipo burocratico o comunque di servizi al cittadino che si espletano “manovrando” carte o altri materiali inerti e non bambini o adolescenti che non possono essere nemmeno temporaneamente lasciati senza guida e senza custodia.
Neppure è concepibile che lo Stato assuma un certo numero di docenti, oltre le necessità di copertura delle classi formate che stiano a disposizione per coprire le eventuali assenze e che per la maggior parte del tempo resterebbero sotto utilizzati, o diversamente utilizzati, ma regolarmente pagati come il docente in pieno servizio. Ogni tentativo di eliminazione del precariato, almeno di quello scolastico, è una pietosa bugia o una posizione pretestuosa agitata per soli scopi politici o sindacali, ma che non tengono conto della realtà del problema. E il problema non ha soluzione se non un parziale controllo, operando a monte una sorta di contingentamento nella formazione professionale attraverso il numero chiuso che andrebbe introdotto per legge.
E’ chiaro che in una situazione come quella attuale, figlia di una mancata politica  di lungo respiro, ci si trova con una pletora di docenti che affollano tutte le graduatorie di ogni ordine e grado di scuola e di ogni regione e provincia d’Italia. Una situazione disastrosa vieppiù aggravata dalla diminuzione delle classi causa la diminuzione delle nascite e solo in piccola parte tamponata dall’arrivo “provvidenziale” di alunni extracomunitari.
In tutto questo si inserisce anche il parziale ritorno al passato voluto dalla riforma Gelmini che abolisce uno dei tanti aspetti non esaltanti della precedente riforma degli anni ’90. Il riferimento va alla cosiddetta scuola per moduli (nella sola scuola elementare) che aveva introdotto tutta una serie di “escamotage” per ovviare alla massiccia immissione in ruolo di personale docente che già allora languiva nelle varie graduatorie provinciali permanenti. Mi riferisco all’organizzazione didattica di tre insegnanti che ruotavano su due classi con parziali tempi di compresenza e di scambi di ruoli fra docente prevalente e docente in subordine che inizialmente doveva accogliere, non si è mai saputo in quali locali, gli alunni di confessioni religiose diverse dalla cattolica in attività “inventate”, ma che poi in pratica venivano utilizzati per tamponare le assenze dei docenti di altre classi. Si creava in tal modo un autentico traffico di docenti che girava per l’istituto, senza alcuna motivazione pedagogica e didattica. Un autentico bailamme che annullava il rapporto diretto fra alunno e docente, che creava team anche di quattro docenti su tre classi, a cui andavano ad aggiungersi l’ins. di religione (cattolica), l’ins. di sostegno, l’ins. di lingua straniera (quasi sempre inglese), oltre che della equipe socio – medico – psico – pedagogica. Un gruppo di persone che non aveva nulla in comune, che si guardava in cagnesco perché c’era sempre chi tirava la carretta e chi si affidava a quello che decidevano gli altri, salvo poi criticare. Tutto questo gruppo insieme doveva programmare l’attività didattica settimanale. Un autentico rompicapo che  nel migliore dei casi, si risolveva con un docente che scriveva  un trattato a suo uso e consumo e con gli altri che si limitavano ad apporre la classica firma in calce.
Dopo tanti anni di questa girandola tutti avevano fatto l’abitudine e nessuno si è mai chiesto perché tale sistema era stato inventato, dove esso trovava la vera motivazione pedagogica, visto che i programmi dell’85 non scendevano nell’aspetto organizzativo. Forse in molti si sono dimenticati che questa situazione un po’ surreale si era creata con l’immissione in ruolo “ope legis”, in alcuni casi con una ulteriore mostruosità, la cosiddetta “retroattività giuridica della nomina” di una nutrita schiera di docenti che erano invecchiati aspettando l’immissione in ruolo  e quando la ottennero, (magari ricorrendo all’ulteriore escamotage della domanda in una più favorevole posizione in graduatoria trovata in un provincia del Nord Italia), avevano  già perso l’entusiasmo tipico del neofita e già pensavano a come andare in pensione.
Una classe magistrale vecchia chiamata a gestire i nuovi programmi. Non se ne fece niente. La scuola divenne ogni giorno di più un “refugium peccatorum” con uno stipendio da fame e con una dignità professionale scesa oltre le calcagna. Intanto la società si liberalizzava. L’autorità fondata sul rigore lasciava il passo al lassismo non solo di una scuola non più al passo coi tempi, ma di una intera società – la famiglia in primis – dalla quale il bambino non riceveva più gli stessi imput comportamentali.
Oggi una nuova realtà scolastica ed educativa si affaccia nella nostra scuola. E non è detto che sia risolutiva, visto che parte non da una pedagogia (mi viene in mente Giovanni Gentile), ma da una più banale necessità di far quadrare i conti dello Stato. Come sempre in Italia si vogliono celebrare le nozze con i fichi secchi.

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